PARTE PRIMA
I Misteri Delle Sunderbunds

 

L’ASSASSINIO

Il Gange, questo famoso fiume celebrato dagli indiani antichi e moderni, le cui acque son reputate sacre da quei popoli, dopo d’aver solcato le nevose montagne dell’Himalaya e le ricche provincie del Sirinagar, di Dehli, di Odhe, di Bahare, e di Bengala, a duecentoventi miglia dal mare dividesi in due bracci, formando un delta gigantesco, intricato, meraviglioso e forse unico.

La imponente massa delle acque si divide e suddivide in una moltitudine di fiumicelli, di canali e di canaletti, che frastagliano in tutte le guise possibili l’immensa estensione di terre strette fra l’Hugly, il vero Gange, ed il golfo del Bengala. Di qui una infinità d’isole, d’isolotti, di banchi, i quali, verso il mare, ricevono il nome di Sunderbunds.

Nulla di più desolante, di più strano e di più spaventevole che la vista di queste Sunderbunds. Non città, non villaggi, non capanne, non un rifugio qualsiasi; dal sud al nord, dall’est all’ovest, non scorgete che immense piantagioni di bambù spinosi, stretti gli uni contro gli altri, le cui alte cime ondeggiano ai soffi del vento, appestate dalle esalazioni insopportabili di migliaia e migliaia di corpi umani che imputridiscono nelle avvelenate acque dei canali.

È raro se scorgete un banian torreggiare al di sopra di quelle gigantesche canne; ancor più raro se v’accade di scorgere un gruppo di manghieri, di giacchieri o di nagassi sorgere fra i pantani, o se vi giunge all’olfatto il soave profumo del gelsomino, dello sciambaga o del mussenda, che spuntano timidamente fra quel caos di vegetali.

Di giorno, un silenzio gigantesco, funebre, che incute terrore ai più audaci, regna sovrano; di notte, invece, è un frastuono orribile di urla, di ruggiti, di sibili e di fischi, che gela il sangue.

Dite al bengalese di porre piede nelle Sunderbunds ed egli si rifiuterà; promettetegli cento, duecento, cinquecento rupie, e mai smuoverete la incrollabile sua decisione. Dite al molango1 che vive nelle Sunderbunds, sfidando il cholera e la peste, le febbri ed il veleno di quell’aria appestata, di entrare in quelle jungle ed al pari del bengalese si rifiuterà. Il bengalese ed il molango non hanno torto; inoltrarsi in quelle jungle, è andare incontro alla morte.

Infatti è là, fra quegli ammassi di spine e di bambù, fra quei pantani e quelle acque gialle, che si celano le tigri spiando il passaggio dei canotti e persino dei navigli, per scagliarsi sul ponte e strappare il barcaiuolo o il marinaio che ardisce mostrarsi; è là che nuotano e spiano la preda orridi e giganteschi coccodrilli, sempre avidi di carne umana; è là che vaga il formidabile rinoceronte a cui tutto fa ombra e lo irrita alla pazzia; ed è là che vivono e muoiono le numerose varietà dei serpenti indiani, fra i quali il rubdira mandali il cui morso fa sudar sangue ed il pitone che stritola fra le sue spire un bue; ed è là infine che talvolta si cela il thug indiano, aspettando ansiosamente l’arrivo d’un uomo qualsiasi per strangolarlo ed offrire la spenta vita alla sua terribile divinità!

Nondimeno la sera del 16 maggio del 1855, un fuoco gigantesco ardeva nelle Sunderbunds meridionali, e precisamente a un tre o quattrocento passi dalle tre bocche del Mangal, fangoso fiume che staccasi dal Gange e che scaricasi nel golfo del Bengala.

Quel chiarore, che spiccava vivamente sul fondo oscuro del cielo, con effetto fantastico, illuminava una vasta e solida capanna di bambù, ai piedi della quale dormiva, avvolto in un gran dootée di chites stampato, un indiano d’atletica statura, le cui membra sviluppatissime e muscolose denotavano una forza non comune ed un’agilità di quadrumane.

Era un bel tipo di bengalese, sui trent’anni, di tinta giallastra ed estremamente lucida, unta di recente con olio di cocco; aveva bei lineamenti, labbra piene senz’essere grosse e che lasciavano intravedere un’ammirabile dentatura; naso ben tornito, fronte alta screziata di linee di cenere, segno particolare dei settari di Siva.

Tutto l’insieme esprimeva una energia rara ed un coraggio straordinario, di cui mancano generalmente i suoi compatriotti.

Come si disse, dormiva, ma il suo sonno non era tranquillo. Grosse goccie di sudore irrigavano la sua fronte, che talvolta si aggrottava, si offuscava; il suo ampio petto sollevavasi impetuosamente, scomponendo il dootée che l’avvolgeva; le sue mani piccole come quelle d’una donna, si chiudevano convulsivamente e correvano spesso alla testa, strappando il turbante e mettendo allo scoperto il cranio accuratamente rasato.

Delle parole tronche, delle frasi bizzarre, di quando in quando uscivano dalle sue labbra, pronunciate con un tono di voce dolce, appassionato.

– Eccola – diceva egli sorridendo. – Il sole tramonta… scende dietro i bambù… il pavone tace, il marabù s’alza, lo sciacallo urla… Perché non si mostra?… Che ho fatto io? Non è questo il luogo?… Non è quello il mussenda dalle foglie sanguigne?… Vieni vieni, o dolce apparizione… soffro, sai, soffro ed anelo l’istante di rivederti.

«Ah!… Eccola, eccola… i suoi azzurri occhi mi guardano, le sue labbra sorridono… oh! come è divino quel sorriso! Mia celeste visione, perché rimani muta dinanzi a me? Perché mi guardi così?… Non aver paura di me: sono Tremal-Naik, il «Cacciatore di Serpenti della Jungla Nera»… Parla, parla, lascia che io oda la tua dolce voce… Il sole tramonta, le tenebre calano come corvi sui bambù… non sparire, non sparire, non voglio, no! no! no!»

L’indiano emise un acutissimo grido e sulla sua faccia si dipinse una viva angoscia.

A quel grido, dalla capanna uscì, correndo, un secondo indiano. Era questi di statura assai più bassa dell’addormentato ed assai esile, con gambe e braccia che somigliavano a bastoni nodosi ricoperti di cuoio. Il tipo fierissimo, lo sguardo fosco, il corto languti che coprivagli i fianchi, le boccole che pendevano dai suoi orecchi, tutto insomma lo dava a conoscere a prima vista per un maharatto, gente bellicosa dell’India Occidentale.

– Povero padrone – mormorò egli, guardando l’addormentato. – Chi sa qual terribile sogno turba il suo sonno!

Riattizzò il fuoco, poi sedette accanto al padrone, agitando dolcemente un dubgah di bellissime penne di pavone.

– Quale mistero – ripigliò l’addormentato con voce rotta. – Mi pare di vedere delle macchie di sangue!… Dolce visione fuggi di là… t’insanguinerai. Perché tutto quel rosso?… Perché tutti quei lacci?… Si vuole strangolare qualcuno dunque? Quale mistero?

– Cosa dice? – si domandò il maharatto, sorpreso. – Sangue, visioni, lacci!… Quale sogno!

Ad un tratto l’addormentato si scosse; sbarrò gli occhi, scintillanti come due neri diamanti e s’alzò a sedere.

– No!… No!… – esclamò egli con voce rauca. – Non voglio!…

Il maharatto lo guardò con occhi compassionevoli.

– Padrone – mormorò egli. – Cos’hai?

L’indiano parve che ritornasse in sé. Chiuse gli occhi, poi tornò a riaprirli, fissando in volto il maharatto.

– Ah! sei tu, Kammamuri! – esclamò.

– Sì, padrone.

– Cosa fai tu qui?

– Veglio su di te e scaccio le zanzare.

Tremal-Naik aspirò fortemente l’aria passandosi più volte le mani sulla fronte.

– Dove sono Hurti ed Aghur? – chiese, dopo qualche istante di silenzio.

– Nella jungla. Ieri sera hanno scoperto le tracce di una gran tigre e questa mane si sono recati a cacciarla.

– Ah! – fe’ sordamente Tremal-Naik.

La sua fronte si aggrottò e un profondo sospiro, che pareva un ruggito soffocato, venne a morirgli sulle aride labbra.

– Cos’hai padrone? – chiese Kammamuri. – Tu stai male.

– Non è vero.

– Eppure dormendo ti lagnavi.

– Io?…

– Sì, padrone, tu parlavi di strane visioni.

Un amaro sorriso sfiorò le labbra del «Cacciatore di Serpenti».

– Soffro, Kammamuri – diss’egli con rabbia. – Oh! ma soffro molto.

– Lo so, padrone.

– Come lo sai tu?

– Da quindici giorni io ti osservo e vedo sulla tua fronte delle profonde rughe, e sei malinconico, taciturno. Una volta tu non eri così triste.

– È vero, Kammamuri.

– Qual dolore può affliggere il mio padrone? Saresti forse stanco di vivere nella jungla?

– Non dirlo, Kammamuri. È qui, fra questi deserti di spine, fra queste paludi, sulla terra delle tigri e dei serpenti, che io son nato e cresciuto e qui, nella mia cara jungla, morirò.

– Allora?

– È una donna, una visione, un fantasma!

– Una donna! – esclamò Kammamuri sorpreso. – Una donna hai detto?

Tremal-Naik crollò il capo in senso affermativo e si strinse fortemente la fronte fra le mani, come se volesse soffocare qualche tetro pensiero.

Per parecchi minuti fra loro due regnò un funebre silenzio, appena rotto dal gorgoglio della fiumana che rompevasi contro le rive e dai gemiti del vento che accarezzava l’immensa jungla.

– Ma dove hai veduto questa donna? – chiese alfine Kammamuri. – Dove mai, ché la jungla non ha che delle tigri per abitanti?

– L’ho veduta nella jungla, Kammamuri – disse Tremal-Naik con voce cupa. – Era una sera, oh non la scorderò mai, quella sera, Kammamuri! Io cercavo i serpenti, sulle rive d’un ruscello, laggiù, proprio nel più folto dei bambù, quando a venti passi da me, in mezzo ad una macchia di mussenda dalle foglie sanguigne, apparve una visione, una donna, bella, raggiante, superba. Non ho mai creduto, Kammamuri, che esistesse sulla terra una creatura così bella, né che gli dèi del cielo fossero capaci di crearla.

«Aveva neri e vivi gli occhi, candidi i denti, bruna la pelle e dai suoi capelli d’un castano cupo, ondeggianti sulle spalle, ne veniva un dolce profumo che inebriava i sensi.

«Ella mi guardò, emise un gemito lungo, straziante, poi scomparve al mio sguardo. Mi sentii incapace di muovermi e rimasi là, colle braccia tese innanzi, trasognato. Quando tornai in me e mi misi a cercarla, la notte era scesa sulla jungla, e non vidi né udii più nulla.

«Chi era quella apparizione? Una donna o uno spirito celeste? Ancora lo ignoro.»

Tremal-Naik si tacque. Kammamuri notò che egli tremava sì forte da temere che avesse la febbre.

– Quella visione mi fu fatale – ripigliò Tremal-Naik, con rabbia. – Da quella sera si operò in me uno strano cangiamento; mi parve di essere diventato un altro uomo; e che qui, nel cuore, si sviluppasse una terribile fiamma!

«Si direbbe che quell’apparizione mi ha stregato. Se sono nella jungla, me la vedo danzare dinanzi agli occhi; se sono sul fiume la vedo nuotare dinanzi alla prua del mio battello; penso e il mio pensiero corre a lei; dormo e in sogno mi appare sempre lei. Mi sembra di essere pazzo.»

– Mi spaventi, padrone – disse Kammamuri, girando all’intorno uno sguardo pauroso. – Chi era quella bella creatura?

– L’ignoro, Kammamuri. Ma era bella, oh sì! molto bella! – esclamò Tremal-Naik con accento appassionato.

– Forse uno spirito?

– Forse.

– Forse una divinità?

– Chi può dirlo?

– E non l’hai più veduta?

– Sì, l’ho veduta ancora e molte e molte volte. La sera dopo, alla medesima ora, senza sapere il come, mi trovava sulle rive del ruscello. Quando la luna s’alzò dietro le oscure foreste del settentrione, quella superba creatura riapparve fra le macchie dei mussenda.

«“Chi sei?” le chiesi.

«“Ada” mi rispose.

«E disparve emettendo il medesimo gemito. Mi sembrò che sprofondasse sottoterra.»

– Ada! – esclamò Kammamuri. – Che nome è questo?

– Un nome che non è indiano.

– E non aggiunse altra parola?

– Nessuna.

– È strano; io non sarei più ritornato.

– Ed io vi ritornai. V’era una forza irresistibile, potente che mi spingeva mio malgrado verso quel luogo; più volte tentai di fuggire e mi mancò la forza di farlo. Ti ho detto che mi pareva d’essere stregato.

– E che cosa provasti in sua presenza?

– Non lo so, ma il cuore mi batteva forte forte.

– Non l’avevi, prima, mai provata quella sensazione?

– Mai – disse Tremal-Naik.

– Ed ora la vedi ancora quella creatura?

– No, Kammamuri. La vidi dieci sere di seguito; alla stessa ora comparivami dinanzi agli occhi, mi contemplava mutamente, poi scompariva senza rumore. Una volta le feci un cenno, ma non si mosse; un’altra volta aprii le labbra per parlare, ed ella si pose un dito sulla bocca invitandomi a tacere.

– E tu non la seguisti mai?

– Mai, Kammamuri, perché quella donna mi faceva paura. Quindici giorni or sono, mi apparve vestita tutta di seta rossa e mi guardò più a lungo del solito. La sera seguente invano l’aspettai, invano la chiamai: non la rividi più.

– È un’avventura strana – mormorò Kammamuri.

– È terribile, invece – disse Tremal-Naik con voce sorda. – Non ho più bene, non sono più l’uomo di una volta; mi sento indosso la febbre e una smania furiosa di rivedere quella visione che mi stregò!

– Allora tu ami quella visione.

– L’amo! Non so cosa significhi questa parola.

In quell’istante, ad una grande distanza, verso le immense paludi del sud, echeggiarono alcune note acutissime. Il maharatto si alzò di scatto e divenne cinereo.

– Il ramsinga!2 – esclamò egli, con terrore.

– Che cos’hai che ti sgomenti? – chiese Tremal-Naik.

– Non odi il ramsinga?

– Ebbene, cosa vuol dir ciò?

– Segnala una disgrazia, padrone.

– Follie, Kammamuri.

– Non ho mai udito suonare il ramsinga nella jungla, fuorché la notte che fu assassinato il povero Tamul.

A quel ricordo una profonda ruga solcò la fronte del «Cacciatore di Serpenti».

– Non sgomentarti – diss’egli, sforzandosi di parer calmo. – Tutti gli indiani sanno suonare il ramsinga e tu sai che talvolta qualche cacciatore ardisce porre il piede sulla terra delle tigri e dei serpenti.

Aveva appena terminato di parlare, che s’udì il lamentevole urlìo d’un cane e poco dopo un potente miagolio che poteva scambiarsi per un vero ruggito.

Kammamuri fremette dalla testa alle piante.

– Ah! padrone! – esclamò. – Anche il cane e la tigre segnalano una sventura.

– Darma! Punthy! – gridò Tremal-Naik.

Una superba tigre reale, di alta statura, di forme vigorose, col mantello aranciato e screziato di nero, uscì dalla capanna e fissò il padrone con due occhi che mandavano terribili lampi. Dietro ad essa comparve, qualche istante dopo, un cagnaccio nero, con lunga coda, orecchi aguzzi, ed il collo armato di un grosso collare di ferro irto di punte.

– Darma! Punthy! – ripeté Tremal-Naik.

La tigre si raccolse su se stessa, emise un sordo brontolio e con un salto di quindici piedi venne a cadere ai piedi del padrone.

– Cos’hai, Darma? – chiese egli, passando le sue mani sul robusto dorso della belva. – Tu sei inquieta.

Il cane invece di accorrere dal padrone si piantò sulle quattro zampe, allungò la testa verso il sud, fiutò per qualche tempo l’aria ed abbaiò lamentosamente tre volte.

– Che sia toccata qualche disgrazia ad Hurti e ad Aghur? – mormorò il «Cacciatore di Serpenti», con inquietudine.

– Lo temo, padrone – disse Kammamuri, gettando sguardi spaventati sulla jungla. – A quest’ora dovrebbero essere qui, ed invece non danno segno di vita.

– Hai udito nessuna detonazione, durante la giornata?

– Sì, una verso la metà del meriggio, poi più nulla.

– Da dove veniva?

– Dal sud, padrone.

– Hai mai veduto alcuna persona sospetta aggirarsi nella jungla?

– No, ma Hurti mi disse d’aver veduto, una sera, delle ombre sulle rive dell’isola Rajmangal ed Aghur d’avere udito degli strani rumori provenire dal banian sacro.

– Ah! dal banian! – esclamò Tremal-Naik. – Hai udito qualche cosa anche tu?

– Forse. Cosa facciamo, padrone?

– Aspettiamo.

– Ma possono…

– Zitto! – disse Tremal-Naik, stringendogli un braccio con forza tale da arrestargli il sangue.

– Cos’hai udito? – mormorò il maharatto, battendo i denti.

– Guarda laggiù, non ti sembra che i bambù della jungla si muovano?

– È vero, padrone.

Punthy fece udire per la terza volta il suo lamentevole urlo, che fu seguito dalle note acute del misterioso ramsinga. Tremal-Naik si strappò dalla cintura di pelle di tigre una lunga e ricca pistola incrostata d’argento e l’armò.

In quell’istante un indiano d’alta statura, seminudo, armato d’una sola scure, si slanciò fuori dei bambù correndo a rompicollo verso la capanna.

– Aghur! – esclamarono ad una voce Tremal-Naik ed il maharatto.

Punthy gli si slanciò contro urlando lugubremente.

– Padrone!… pa…drone! – rantolò l’indiano.

Giunse come un fulmine dinanzi alla capanna, barcollò come fosse stato colpito da un improvviso malore, stralunò gli occhi, gettò un grido strozzato, come un rantolo e piombò fra le erbe come albero sradicato dal vento.

Tremal-Naik gli si era precipitato sopra. Una esclamazione di sorpresa gli sfuggì.

L’indiano pareva moribondo. Aveva alle labbra una spuma sanguigna, tutto il volto lacerato ed imbrattato di sangue, gli occhi stravolti e dilatati enormemente ed ansimava emettendo rauchi sospiri.

– Aghur! – esclamò Tremal-Naik. – Cosa ti è successo? Dov’è Hurti?

La faccia d’Aghur, a quel nome si contrasse spaventosamente e colle unghie sollevò rabbiosamente la terra.

– Padrone… pa…drone! – balbettò egli con profondo terrore.

– Continua.

– Sof…foco… ho corso… ah! padrone!

– Che sia avvelenato? – mormorò Kammamuri.

– No – disse Tremal-Naik. – Il povero diavolo ha galoppato come un cavallo e soffoca; fra qualche minuto si sarà rimesso.

Infatti Aghur cominciava a ritornare in sé, ed a respirare liberamente.

– Parla, Aghur – disse Tremal-Naik, dopo qualche minuto. – Perché sei ritornato solo? Perché tanto terrore? Cosa è successo al tuo compagno?

– Ah! padrone – balbettò l’indiano rabbrividendo. – Quale disgrazia!

– Il ramsinga l’aveva annunciata – mormorò Kammamuri, sospirando.

– Avanti, Aghur – incalzò il «Cacciatore di Serpenti».

– Se l’aveste veduto il poveretto… era là, disteso per terra, irrigidito, cogli occhi fuor delle orbite…

– Chi?… chi?…

– Hurti!

– Hurti morto! – esclamò Tremal-Naik.

– Sì, l’hanno assassinato ai piedi del banian sacro.

– Ma chi l’ha assassinato? Dimmelo, che io vada a vendicarlo.

– Non lo so, padrone.

– Narra tutto.

– Eravamo partiti per cacciare una gran tigre. A sei miglia da qui, scovammo la belva la quale, ferita dalla carabina di Hurti, fuggì verso il sud. Seguimmo per quattro ore la sua pista e la ritrovammo presso la riva, di fronte all’isola Rajmangal, ma non riuscimmo a ucciderla, poiché appena ci scorse si gettò in acqua approdando ai piedi del gran banian.

– Bene, e poi?

– Io volevo ritornare, ma Hurti si rifiutava dicendo che la tigre era ferita e quindi una facile preda. Attraversammo il fiume a nuoto e giungemmo all’isola Rajmangal, dove ci separammo per esplorare i dintorni.

L’indiano s’arrestò battendo i denti pel terrore e divenne pallidissimo.

– Calava la sera – riprese egli con voce cupa. – Sotto i boschi cominciava a fare oscuro e regnava un silenzio funebre che metteva paura. Tutto ad un tratto una nota acuta, quella del ramsinga, rimbombò. Mi guardo d’attorno ed i miei occhi s’incontrano con quelli di un’ombra che si teneva a venti passi da me, seminascosta fra un cespuglio.

– Un’ombra! – esclamò Tremal-Naik. – Un’ombra hai detto?

– Sì, padrone, un’ombra.

– Chi era? Dimmelo, Aghur, dimmelo!

– Mi parve una donna.

– Una donna!

– Sì, sono sicuro che era una donna.

– Bella?

– Faceva troppo oscuro perché potessi vederla distintamente.

Tremal-Naik si passò una mano sulla fronte.

– Un’ombra! – ripeté egli, più volte. – Un’ombra laggiù! Se fosse la mia visione?… Tira innanzi, Aghur.

– Quell’ombra mi guardò per alcuni istanti, poi tese un braccio verso di me, invitandomi ad allontanarmi subito. Sorpreso e spaventato ubbidii, ma non avevo fatto ancora cento passi, che un urlo straziante giunse ai miei orecchi. Quel grido lo riconobbi subito: era quello di Hurti!

– E l’ombra? – chiese Tremal-Naik, in preda ad una estrema agitazione.

– Non mi volsi nemmeno indietro per vedere se era rimasta là, oppure scomparsa. Mi slanciai attraverso la jungla colla carabina in mano e giunsi sotto al gran banian, ai piedi del quale, disteso sul dorso, vidi il povero Hurti. Lo chiamai e non mi rispose; lo toccai, era ancora caldo, ma il suo cuore non batteva più!

– Sei certo?

– Sicurissimo, padrone.

– Dove era stato colpito?

– Non vidi sul suo corpo ferita alcuna.

– È impossibile!

– Te lo giuro.

– E non vedesti alcuno?

– Nessuno, né udii alcun rumore. Io ebbi paura; mi gettai nel fiume, lo attraversai perdendo la carabina e riguadagnai la nostra jungla. Credo di aver fatto sei miglia senza respirare, tanto era il mio spavento. Povero Hurti!

 

L’ISOLA MISTERIOSA

Un profondo silenzio seguì la triste narrazione dell’indiano. Tremal-Naik, diventato ad un tratto cupo e nervosissimo, s’era messo a passeggiare dinanzi al fuoco, colla testa china sul petto, la fronte aggrottata e le braccia incrociate. Kammamuri, agghiacciato dal terrore, meditava, aggomitolato su se stesso. Persino il cane aveva cessato di fare udire il suo lamentevole urlo e s’era sdraiato a fianco di Darma.

Le note acute del misterioso ramsinga strapparono il «Cacciatore di Serpenti» dalle sue meditazioni. Alzò il capo come un cavallo di battaglia che ode il segnale della carica, gettò un’occhiata profonda nella deserta jungla sulla quale ondeggiava allora una densa nebbia, carica d’esalazioni velenose, girò su se stesso ed avvicinandosi bruscamente ad Aghur gli disse:

– Hai udito mai il ramsinga?

– Sì, padrone, – rispose l’indiano, – ma una sola volta.

– Quando?

– La notte che scomparve Tamul, vale a dire sei mesi fa.

– Sicché credi anche tu, come Kammamuri, che segnali una disgrazia?

– Sì, padrone.

– Sai chi è che lo suona?

– Non lo seppi mai.

– Credi tu che il suonatore abbia relazioni coi misteriosi abitanti di Rajmangal?

– Lo credo.

– Chi sospetti che siano quegli uomini?

– Sono poi uomini?

– Non credo che siano le anime dei morti.

– Allora saranno pirati – disse Aghur.

– E quale interesse possono avere per assassinare i miei uomini?

– Chissà, forse quello di spaventarci e di tenerci lontani.

– Dove supponi che abbiano le loro capanne?

– L’ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro.

– Sta bene, – disse Tremal-Naik, – Kammamuri, prendi i remi.

– Cosa vuoi fare, padrone? – chiese il maharatto.

– Recarmi al banian.

– Oh! Non farlo, padrone! – gridarono a un tempo i due indiani.

– Perché?

– Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti.

Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme.

– Il «Cacciatore di Serpenti» non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri! – esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica.

– Ma, padrone!…

– Hai paura forse? – chiese sdegnosamente Tremal-Naik.

– Sono maharatto! – disse l’indiano con fierezza.

– Va’ allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato.

Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di un gran fiasco di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio.

– Aghur, tu rimarrai qui – diss’egli, uscendo. – Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Rajmangal colla tigre e con Punthy.

– Ah! padrone…

– Non ti senti il coraggio bastante per venire laggiù?

– Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell’isola maledetta.

– Tremal-Naik non si lascia assassinare impunemente, Aghur.

– Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile.

– Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto né udito. Addio, Aghur.

Si gettò la carabina ad armacollo e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso un piccolo gonga, rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero.

– Partiamo – disse.

Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio.

Un’oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette, copriva le Sunderbunds e la corrente del Mangal.

A destra ed a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo.

In lontananza però, sulla fosca linea dell’orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall’aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola.

Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorio delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata.

Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sotto mano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull’una e ora sull’altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo. Ogni qual tratto, però, cessava di remare, tratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al «Cacciatore di Serpenti» se nulla avesse udito o veduto.

Era di già mezz’ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza.

– Alt! – mormorò Tremal-Naik.

Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l’altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un’intima relazione colle quattro stagioni dell’anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare.

È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d’estate e brillante nell’autunno.

Perché mai quei due istrumenti suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva.

– Padrone – diss’egli. – Siamo stati scoperti.

– È probabile – rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente.

– Se ritornassimo? Questa non fa per noi.

– Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento.

Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo ove il fiume stringevasi a mo’ di collo di bottiglia. Un buffo d’aria tiepida, soffocante, carica d’esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani.

Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi poi con fantastica rapidità.

– Eccoci al cimitero galleggiante – disse Tremal-Naik. – Fra dieci minuti arriveremo al banian.

– Passeremo col gonga? – chiese Kammamuri.

– Con un po’ di pazienza si passerà.

– È male, padrone, offendere i morti.

– Brahma e Visnù ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri.

Il gonga con pochi colpi di remo raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura.

Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal.

– Avanti! – disse il «Cacciatore di Serpenti».

Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s’aprì3 per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati.

– Cosa c’è di nuovo? – esclamò Kammamuri sorpreso.

– I marabù – disse Tremal-Naik.

Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali e posandosi sui cadaveri.

– Avanti, Kammamuri – ripeté Tremal-Naik.

Il gonga spinto innanzi, dopo una buona mezz’ora, attraversato il cimitero, si trovò in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero.

– Il banian! – disse Tremal-Naik.

Kammamuri a quel nome fremette.

– Padrone! – mormorò, coi denti stretti.

– Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s’areni da sé sull’isola. Forse c’è qualcuno nei dintorni.

Il maharatto ubbidì, sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto.

Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell’isola Rajmangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti.

Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsinga. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d’olio.

Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinio, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero.

Passarono dieci minuti d’angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi.

Prima cosa, che gli diede nell’occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva.

– Kammamuri – mormorò. – Alzati ed arma le tue pistole.

Il maharatto non se lo fece dire due volte.

– Cosa vedi, padrone? – chiese egli con un filo di voce.

– Guarda laggiù.

– Eh!.. – fe’ il maharatto, sbarrando gli occhi. – Un uomo!

– Zitto!

Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l’apparenza d’un essere umano sdraiato, ma l’abbassò senza scaricarla.

– Andiamo a vedere cos’è, Kammamuri – diss’egli. – Quell’uomo non è vivo.

– E se fingesse d’essere morto?

– Peggio per lui.

I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quell’individuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una decina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente, volando verso il fiume.

– È un uomo morto – mormorò Tremal-Naik. – Se fosse…

Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per l’ira.

– Hurti! – esclamò.

Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dell’indiano Aghur. L’infelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli d’un buon palmo la lingua.

Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato.

– L’hanno stordito prima e poi strangolato – diss’egli, con voce sorda.

– Povero Hurti – mormorò il maharatto. – Ma perché assassinarlo e in questo modo?

– Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascierà impunito il delitto.

– Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti.

– Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto.

– E Hurti? Lo lascieremo qui?

– Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina.

– Ma le tigri questa notte lo divoreranno.

– Sul cadavere di Hurti veglia il «Cacciatore di Serpenti».

– Ma come? Non ritorni tu?

– No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò quest’isola.

– Ma tu vuoi farti assassinare.

Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano.

– Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri.

– Oh mai, padrone!

– Perché?

– Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che t’accompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai.

– Anche se io mi recassi a trovare la visione?

– Sì, padrone.

– Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi!

Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calandolo a picco.

– Cosa fai? – chiese Kammamuri, sorpreso.

– Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero.

Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare il colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.

 

IL VENDICATORE DI HURTI

I banian, chiamati altresì al moral o fichi delle pagode, sono gli alberi più strani e più giganteschi che si possa immaginare.

Hanno l’altezza ed il tronco delle nostre più grandi e più grosse quercie e dagli innumerevoli rami tesi orizzontalmente scendono delle finissime radici aeree, le quali, appena toccano terra, s’affondano e s’ingrossano rapidamente, infondendo nuovo nutrimento e più vigorosa vita alla pianta.

Avviene così che i rami s’allungano sempre più, generando nuove radici e quindi nuovi tronchi sempre più lontani, di maniera che un albero solo copre un’estensione vastissima di terreno. Si può dire che forma una foresta sostenuta da centinaia e centinaia di bizzarri colonnati, sotto i quali i sacerdoti di Brahma collocano i loro idoli. Nella provincia di Guzerate esiste un banian chiamato «Cobir bor» assai venerato dagli indiani ed al quale non esitano a dare tremila anni d’età; ha una circonferenza di duemila piedi e non meno di tremila colonne o radici che dir si voglia. Anticamente era assai più vasto, ma parte di esso fu distrutto dalle acque del Nerbudda, che rosero una parte dell’isola su cui cresce.

Il banian, sotto il quale i due indiani stavano per passare la notte, era uno dei più giganteschi, fornito di più di seicento colonne, sostenenti smisurati rami carichi di piccoli frutti vermigli e con un tronco grossissimo, ma che ad una certa altezza era tagliato.

Tremal-Naik e Kammamuri, dopo di avere esaminato scrupolosamente colonnato per colonnato, per assicurarsi che dietro non celavasi alcuno, si sedettero vicino al tronco, l’uno presso l’altro, colla carabina montata, posata sulle ginocchia.

– Qui qualcuno verrà – disse il «Cacciatore di Serpenti», sottovoce. – Sfortuna al primo che giunge sotto il tiro della mia carabina.

– Credi dunque che gli esseri misteriosi che assassinarono Hurti, vengano qui? – chiese Kammamuri.

– Sono certissimo. Vedrai, maharatto, che prima di domani, noi sapremo qualche cosa.

– Ci impadroniremo del primo che viene e lo accopperemo.

– Secondo le circostanze. Orsù, silenzio, ora, ed occhi bene aperti…

Trasse da una tasca una foglia somigliante a quella dell’edera, conosciuta in India sotto il nome di betel, d’un sapore amarognolo e un poco pungente, vi unì un pezzetto di noce di arecche e un po’ di calce e si mise a masticar questo miscuglio che vuolsi conforti lo stomaco, fortifichi il cervello, preservi i denti e curi l’alito.

Passarono due ore lunghe come due secoli, durante le quali nessun rumore turbò il silenzio che regnava sotto la fitta ombra del gigantesco albero. Doveva essere la mezzanotte o poco meno, quando a Tremal-Naik, che tendeva per bene gli orecchi, sembrò di udire un rumore strano.

Lo si avrebbe detto un rombo, simile a uno di quelli che precedono talvolta i terremoti, ma assai più sordo.

Tremal-Naik si sentì invadere da una vaga inquietudine.

– Kammamuri – mormorò con un filo di voce. – Sta’ in guardia.

– Cos’hai veduto? – chiese il maharatto, trasalendo.

– Nulla, ma ho udito un rumore che mi è nuovo.

– Dove?

– Mi parve che venisse da sottoterra.

– È impossibile, padrone!

– Tremal-Naik ha gli orecchi troppo acuti per ingannarsi.

– Cosa pensi che sia?

– L’ignoro, ma lo sapremo.

– Padrone, qui c’è un terribile mistero.

– Hai paura?

– No, sono maharatto.

– Allora sveleremo ogni cosa.

In quell’istante, sottoterra, s’udì distintamente ripetersi il misterioso rombo. I due indiani si guardarono in volto con sorpresa.

– Si direbbe che qui sotto suonano qualche enorme tamburo, l’hauk4 per esempio – disse Tremal-Naik.

– Non può essere altrimenti – rispose Kammamuri. – Ma come mai viene da sottoterra? Che abbiano il loro asilo sotto la jungla questi esseri misteriosi?

– Così deve essere, Kammamuri.

– Che cosa facciamo, padrone?

– Rimarremo qui: qualche persona uscirà da qualche parte.

Tykora! – gridò una voce.

I due indiani balzarono simultaneamente in piedi. Cosa strana, incredibile: quella voce era stata pronunciata così vicina a loro, da credere che la persona che l’aveva emessa fosse dietro le loro spalle.

Tykora! – mormorò Tremal-Naik. – Chi pronunciò questo nome?

Guardò attorno, ma non vide alcuno; guardò in alto ma non scorse che i rami del banian, confusi fra le tenebre.

– Che ci sia qualcuno nascosto fra i rami?

– Ma no – disse Kammamuri, tremando. – La voce si udì dietro di noi.

– È strano.

Tykora! – esclamò la medesima voce misteriosa.

I due indiani tornarono a guardarsi intorno. Non era più possibile ingannarsi; qualcuno stava a loro vicino, ma con loro sorpresa e diciamolo pure, terrore, non era visibile.

– Padrone, – mormorò Kammamuri, – abbiamo da fare con qualche spirito.

– Non credo agli spiriti, io – rispose Tremal-Naik. – Quest’essere che si diverte a spaventarci, lo scopriremo.

– Oh!… – esclamò il maharatto, facendo tre o quattro passi indietro, come un ubriaco.

– Guarda lassù… padrone! Guarda!…

Tremal-Naik alzò gli occhi sul banian e scorse un fascio di luce uscire dal tronco mozzato. Malgrado il suo straordinario coraggio, si sentì agghiacciare il sangue nelle vene.

– Della luce! – balbettò sgomentato.

– Scappiamo, padrone! – supplicò Kammamuri.

Sottoterra si udì per la terza volta il misterioso boato e dal tronco del banian uscì la squillante nota del ramsinga. In lontananza echeggiarono altre note simili.

– Fuggiamo, padrone! – ripeté Kammamuri, pazzo di terrore.

– Mai! – esclamò Tremal-Naik, risolutamente.

Aveva messo il pugnale fra i denti e afferrata la carabina per la canna per servirsene come d’una mazza. D’un tratto cambiò idea.

– Vieni, Kammamuri – diss’egli. – Prima d’incominciare la pugna, sarà meglio vedere con chi dobbiamo lottare.

Egli trascinò il maharatto ad un duecento passi dal tronco del banian e si nascosero dietro a tre o quattro colonne riunite che permettevano ai due indiani di vedere senza esser scoperti.

– Non una parola, ora – disse. – Al momento opportuno agiremo.

Dal colossale tronco del banian uscì un’ultima nota acutissima, che svegliò tutti gli echi delle Sunderbunds. Il fascio di luce che usciva dalla sommità dell’albero si spense e in sua vece apparve una testa umana, coperta da una specie di turbante giallo.

Essa girò all’intorno qualche istante lo sguardo, come per assicurarsi che nessuna persona trovavasi al disotto del gigantesco albero, poi si alzò, ed un uomo, indiano a giudicarlo dalla tinta, uscì aggrappandosi ad uno dei rami. Dietro di lui uscirono quaranta altri indiani, i quali si lasciarono scivolare giù pei colonnati, fino a terra.

Erano tutti quasi nudi. Un solo dubgah, specie di sottanino, d’un giallo sporco, copriva i loro fianchi e sui loro petti scorgevansi dei tatuaggi strani che volevano essere lettere del sanscrito5 e proprio nel mezzo vedevasi un serpente colla testa di donna.

Un sottile cordone di seta, che pareva un laccio, ma che aveva una palla di piombo all’estremità, girava più volte attorno al dubgah ed un pugnale era passato in quella strana cintura.

Quegli esseri misteriosi si assisero silenziosamente per terra, formando un circolo attorno ad un vecchio indiano dalle braccia smisurate, e lo sguardo brillante come quello d’un gatto.

– Figli miei – disse questi con voce grave. – La nostra possente mano ha colpito lo sciagurato che ardì calcare questo suolo consacrato ai thugs ed inviolabile a qualsiasi straniero. È una vittima di più da aggiungere alle altre cadute sotto il nostro pugnale, ma la dea non è ancora soddisfatta.

– Lo sappiamo – risposero in coro gl’indiani.

– Sì, figli liberi dell’India, la nostra dea domanda altri sacrifici.

– Che il nostro grande capo comandi e noi tutti partiremo.

– Lo so, che voi siete bravi figli – disse il vecchio indiano. – Ma il tempo non è ancora venuto.

– Cosa s’aspetta dunque?

– Un gran pericolo ci minaccia, figli.

– Quale?

– Un uomo ha gettato gli occhi sulla «Vergine» che veglia la pagoda della dea.

– Orrore! – esclamarono gl’indiani.

– Sì, figli miei, un uomo audace osò guardare in volto la vaga «Vergine», ma quell’uomo se non cadrà sotto la folgore della dea, perirà sotto il nostro infallibile laccio.

– Chi è quest’uomo?

– A suo tempo lo saprete. Portatemi la vittima.

Due indiani si alzarono e si diressero verso il luogo dove giaceva il cadavere del povero Hurti. Tremal-Naik, che aveva assistito senza batter ciglio a quella strana scena, alla vista di quei due uomini che afferravano il morto per le braccia trascinandolo verso il tronco del banian, si era alzato di scatto colla carabina in mano.

– Ah! maledetti! – esclamò egli con voce sorda togliendoli di mira.

– Cosa fai, padrone? – bisbigliò Kammamuri, prendendogli l’arma ed abbassandola.

– Lascia che li accoppi, Kammamuri – disse il «Cacciatore di Serpenti». – Essi hanno ucciso Hurti, è giusto che io lo vendichi.

– Vuoi perderci tutti e due. Sono quaranta.

– Hai ragione, Kammamuri. Li colpiremo tutti in una sola volta.

Riabbassò la carabina e tornò a coricarsi mordendosi le labbra per frenare la collera.

I due indiani avevano allora trascinato Hurti nel mezzo del circolo e l’avevano lasciato cadere ai piedi del vecchio.

– Kalì! – esclamò egli, alzando gli occhi verso il cielo.

Trasse il pugnale dalla cintura e lo cacciò nel petto d’Hurti.

– Miserabile! – urlò Tremal-Naik. – È troppo!

Egli s’era slanciato fuori del nascondiglio. Un lampo squarciò le tenebre seguito da una strepitosa detonazione ed il vecchio indiano, colpito in pieno petto dalla palla del «Cacciatore di Serpenti», cadde sul corpo di Hurti.

 

NELLA JUNGLA